GIANNI CAGNONI
(Crespino (RO), 1947)
Gianni Cagnoni vive e lavora tra Rovigo e New York.
Sin dall’adolescenza si dedica alla pittura per soddisfare l’esigenza interiore di comunicare con sé stesso.
La professione di dottore commercialista e di docente universitario rallenterà solo parzialmente la sua ricerca artistica che nel 2000 ha ripreso il suo vigore iniziale. Africa e Mutazioni sono le prime serie di opere che riscuotono un grande successo di pubblico e di critica. La mostra al Chiostro del Bramante in Roma lo farà conoscere al pubblico colto e raffinato che frequenta il prestigioso polo museale.
La poetica
OLTRE IL MURO
Quando rientravo in caserma, rigorosamente entro mezzanotte, dal finestrino della mia Citroen 2CV spiavo curioso le luci calde delle case che scorrevano lente lungo la strada per Palmanova.
Avevo voglia di casa, di famiglia, di tranquillità. Il mio cuore si riempiva delle immagini che intravedevo e sognavo “oltre il muro” di quelle case.
La mia mente cercava di conoscere la normalità di quei gesti quotidiani.
Al desiderio di uniformarmi sentivo però forte la voglia di scappare, di non lasciarmi intrappolare da una vita per me senza vita.
Ecco Palmanova, sono arrivato!
Ecco la caserma, gli amici, i commilitoni, le giornate tutte uguali, piene di regole che con gran fatica si rispettava.
E la settimana dopo il ritorno a casa dei miei genitori in permesso premio.
Sempre di giorno, con il sole abbagliante che non mi faceva mai sognare.
ARTE DEL RIFIUTO O RIFIUTO DELL’ARTE
L’innamoramento dei rifiuti è avvenuto all’improvviso, a New York nell’estate 2006 durante le mie consuete vacanze americane. Mi sono accorto che guardando i grandi contenitori di ferro per i rifiuti, le colonne dipinte e ridipinte della metropolitana, i sacchi neri e rossi delle immondizie ammassati fuori dai negozi, provavo un’emozione piacevole e avvertivo l’energia che quei segni casuali, quei colori mi trasmettevano. Ho preso, allora, la mia inseparabile macchina fotografica e ho iniziato, con essa, a “dipingere”. Usare i pennelli, le spatole ed i colori non è poi così diverso dall’usare uno strumento meccanico come una comune macchina fotografica. Il medium non mi ha mai interessato più di tanto; di solito quando produco arte non mi preoccupo di nulla, né del mezzo che uso né del risultato.
Sono stati, forse, il mio menefreghismo per il soggetto artistico e la mia razionale pigrizia a farmi innamorare dei rifiuti, dei muri scrostati, dei piatti sporchi, dei vetri graffiati….
Mi sono chiesto, allora, del perché i rifiuti sono per me così intriganti? Ho pensato che rifiutare vuol dire sia allontanare da noi, dal nostro mondo qualcuno o qualcosa che ci apparteneva sia impedire che qualcuno o qualcosa entri nel nostro mondo.
Rifiutare è una attività mentale e fisica positiva perché da un lato ci aiuta a far spazio nella mente e nell’ambiente in cui viviamo per accogliere il nuovo e dall’altro lato ci fa conoscere agli altri in modo che sia chiaro quali sono i nostri programmi e le nostre aspirazioni.
Rifiutare diventa così “un’arte” che richiede, per non provare sentimenti di rimpianto, una grande chiarezza e forza interiore. E le persone e gli oggetti rifiutati continueranno a ricercare nuovi contatti e opportunità per trasmettere l’energia che ancora hanno.
È così che quei segni lasciati dall’abbraccio che ogni mattina, all’alba, i camion regalano ai grandi contenitori dell’immondizia scuotendoli forte per svegliarli al nuovo giorno, che i diversi colori stesi sulle colonne del metrò, che non si vergognano di essere uno sopra l’altro incipriati dalla ruggine, mi parlavano. Avevano un sacco di cose da raccontarmi.
Io continuerò ad ascoltarli e a far rivivere la loro inesplorata bellezza nella mia arte.
I RIFIUTI DELLA MENTE
Ho realizzato una serie di dipinti che ho chiamato “Rifiuti” stimolato da alcune riflessioni che qui trascrivo.
Mi riferisco, ovviamente, ai rifiuti che riguardano la nostra mente, i nostri atteggiamenti, le nostre emozioni. Penso sia importante eliminare ciò che non va e analizzare ciò che riteniamo imperfetto, che ci fa arrossire, intimidire o vergognare.
Guardarsi dentro e percepire quello che non va è un meccanismo psicologico complesso. Spesso si rimuove, si altera la realtà, si dimentica o per paura di rifiuti e punizioni si dà la responsabilità ad altri.
I rifiuti sono simbolicamente tutto ciò che decidiamo di eliminare da noi stessi e dai nostri comportamenti.
Il processo di eliminazione di emozioni e di sentimenti richiede una serena valutazione di ciò che va selezionato o conservato o riciclato. È necessario uno sforzo valutativo che implica il saper valutare le situazioni complesse per risolverle, anche con una mediazione, o per eliminare ciò che è più difficile districare.
Se non si attua questo processo di eliminazione ci si trova ad ammassare problemi, bugie, silenzi, passioni, ovvero rifiuti interni da elaborare, ciò che non riusciamo a dirci o a dire.
I falsi meccanismi di difesa che attuiamo per proteggerci dal dolore che proviamo, quale il perdono dato frettolosamente, il non approfondire ciò che ci ha fatto soffrire, la fretta nell’analizzare le cose, i motivi dei nostri e altrui fallimenti, portano a rendere i nostri comportamenti spesso ambigui e sfuggenti.
Molte volte siamo incapaci di guardare ciò che nella nostra vita non va. Preferiamo fuggire e correre durante il giorno e la notte nella frenesia del lavoro, nei sensi di colpa fino allo stordimento delle ossessioni o delle droghe. Spesso quel senso assoluto del dovere, quel bisogno di consenso, quell’essere sempre pronti a farci carico dei problemi degli altri ci portano a farci sentire sempre più pesanti e carichi. L’incapacità di amare la propria vita e se stessi ci porta spesso a farci riempire dal dolore delle responsabilità e delle mancate soluzioni degli altri.
Dire no o dire sì diventa così una funzione psicologica simile allo smaltimento dei rifiuti.
Il rifiuto dato è una affermazione della propria persona, dei propri confini; un rifiuto ricevuto è la molla che ci deve far riflettere su ciò che abbiamo sbagliato.
Rifiutare e smaltire è indice di chiarezza, di pulizia è un processo che ti fa star meglio con te stesso e con gli altri.
Occorre allora conservare ciò che veramente è importante ed eliminare ciò che non ci serve anche se l’abitudine ci fa amare anche le parti peggiori dei nostri sentimenti e comportamenti.
MIND’S REFUSAL
I have done a series of paintings which I have called “Trash” as I was incited by some reflections which I am writing down.
I am referring, obviously, to refusal concerning our mind, our attitudes and our emotions. I think it is important to get rid of what is not right and analyze what we think is not perfect, or makes us blush, shy or ashamed.
Looking inside ourselves and perceiving what is not right is a complex psychological mechanism. We often remove or alter reality; we forget either because we are afraid of being refused or punished or, thus, we blame make other people for that.
Refusal is symbolically all that we decide to exclude from ourselves and our behaviour.
The process of eliminating emotions and feelings requires a calm evaluation about what must be either chosen or kept or recycled. That implies a strong valuation such as either be able to analyse complex situations trying to solve them – sometimes through mediation, or get rid of what is more difficult to unravel.
If we are not able to eliminate emotions and feelings we may find ourselves in a heap of problems, lies, silences or passions that are interior refusal to be elaborated, that is all we can not confess or admit.
The false mechanisms of defence we carry out in order to protect ourselves from sorrow, such as a quick forgiveness or a lack of deepening of what made us suffer, or in analysing things, the reasons for our own or other people’s failures, often make our behaviour ambiguous or shady.
We are often unable to look at what is wrong in our life. We prefer to escape and run day and night in hectic work feeling guilty until we drown in obsession or drugs.
An absolute sense of duty, a need to always being approved or being ready to solve other people’s problems often make us feel heavier and heavier. Being unable to love our life and ourselves often makes us filled with other people’s sorrowful responsibilities and unsuccessful solutions.
Thus accepting or refusing becomes a psychological function such as discharging trash.
When we refuse something we are actually affirming our person and our limits.
On the contrary, when we are receive a refusal it must be as a mainspring to reflect about our mistakes.
Refusing and getting rid of things is a mark of clearness and cleanness; it is a process which makes you feel better with yourself and the other people.
We must, therefore, take care of what is really important and get rid of what is not useful, even if habits make us love even the worst aspects of our feelings and behaviours.
DETTAGLI
Ho scattato le foto della mostra a New York nelle estati 2006 e 2007.
Sono particolari degli oggetti più strani che trovavo nelle stazioni della metropolitana: porte, gradini, cartelloni pubblicitari, bidoni, muri, tavolini ed altro.
Il dettaglio mi ha sempre affascinato, per me è l’anima dell’oggetto
In una società che tende ad omologare cose e persone, il dettaglio resta la via di fuga per provare ancora emozioni.
LACK + WHITE = COLORS
La mucca bianca, il fieno nero ed il latte colorato rimandano dritti al tema ecologico dell’inquinamento e a quello, strettamente collegato, delle sofisticazioni alimentari. La purezza dell’animale contrasta con il fieno plastificato prodotto con una sostanza naturale odiata dall’intera umanità perché inquinante: il petrolio. Ma l’uomo sa trasformare il cattivo e brutto in buono e bello. È arrivato al punto di produrre creme di bellezza per mantenere giovane ed elastica la nostra pelle con i derivati del petrolio. Sono i miracoli della ricerca industriale che riesce a rendere affascinante, attraente ed utile anche quello che la nostra mente si rifiuta di accettare.
E più l’industria conquista nuovi orizzonti, più l’anima dell’uomo perde la sua capacità rigeneratrice. Trasformare il fieno nero in latte colorato.
Seneca diceva:” Dietro ogni difficoltà c’è una opportunità”
Ecco il significato di questa mia ultima installazione. Riuscire a cibarsi della negatività che ci circonda per ricavarne energia, forza, colore per la nostra anima.
Abbandonare il nostro IO che si alimenta di fieno nero, inquinato, impossibile da digerire per ascoltare la nostra anima che senza spazio e senza tempo sa condurci alla nostra identità anche cibandosi di solo fieno nero. Solo lei è in grado di concepire il miracolo che il titolo dell’opera così sintetizza: Black + White = Colors
ABBANDONI
Io non amo parlare della mia arte, dei miei quadri e dei miei progetti futuri. Lo lascio fare alle star del cinema che sono solite esaltare i loro lavori e annunciare i prossimi film in programma.
Dico questo perché sono fermamente convinto che la spinta emozionale che mi ha portato a realizzare una certa opera non sia di interesse di nessuno e che svelarla all’osservatore sia l’unico modo per uccidere l’opera stessa. Qualsiasi descrizione verbale dopo lo spavento risulterebbe inadeguata. Neppure parlerò delle tecniche usate per realizzare quella opera al di là del medium usato e che sta scritto sui cartellini posti alla destra di ogni quadro.
Perché questa posizione che può sembrare a prima vista rigida e quindi irrispettosa dei presenti? Perché considero il pubblico presente l’elemento più importante di questa mostra. Le mie opere senza il pubblico che le visiterà sarebbero solo pezzi di tela, legno e pennellate di colore al pari del muro che le sostiene.
Soltanto quando qualcuno si mette in relazione con l’opera la fa vivere e la riscatta dalla sua iniziale condizione di tela e legno incrociato.
E la forza dell’opera sarà sempre più grande quante più vite riuscirà a vivere una diversa dalle altre, brevi o lunghe, tristi o allegre, serene o tormentate, silenziose o rumorose.
Pensate che fortuna ha un’opera d’arte!!
Vivere contemporaneamente più vite.
Questo perché ciascuno di noi è libero di guardare le opere d’arte e cercare di sentire quella che Duchamp chiamava “risonanza estetica”, cioè una vibrazione interiore.
L’arte non può essere intesa attraverso l’intelletto, ma è percepita attraverso una emozione molto simile alla fede religiosa o all’attrazione sessuale.
Questa vibrazione non va confusa con il gesto che induce un sentimento sensuale.
Il gusto presuppone uno spettatore autoritario che impone ciò che gli piace e non gli piace, traducendo in bello e brutto tutto ciò che egli sente come piacevole o spiacevole.
Diversamente, la vittima della vibrazione estetica si trova nella posizione di un uomo innamorato o di un credente che mette a tacere le esigenze del proprio IO e, completamente indifeso, si sottomette a una piacevole e misteriosa costrizione.
Esercitando il proprio gusto, lo spettatore adotta un atteggiamento autorevole; al contrario, quando è toccato dalla vibrazione estetica, quello stesso uomo diviene, quasi estaticamente, umile e ricettivo.
F.I.A.T. VOLUNTAS SUA
L’albero di Giuda (menzogna, tradimento) carico di frutti tecnologici (cerchioni) prodotti del mondo (globalizzazione) tutti diversi e tutti uguali, abbandonati lungo le strade senza saperlo. Segni di decadimento tecnologico, plastica vestita da acciaio. I miei sono più belli dei tuoi, più lucidi, più originali, plastica vestita da acciaio. È colpa della globalizzazione. Mercato nazionale, mercato europeo, mercato mondiale. Settore in perdita, calo delle vendite. Responsabilità dei cittadini, responsabilità dei produttori. Bisogna tagliare i rami secchi. L’America mantiene l’Italia, l’Italia è più creativa dell’America. I bilanci parlano chiaro, è il bilancio che decide, i numeri sono questi. Mario dice “La F.I.A.T. non può dimenticare quello che l’Italia ha fatto per sostenerla”. Sergio risponde: “Io non c’ero. Sono arrivato dopo. Per non farti del male posso solo rinviare le mie decisioni. Il conto però va pagato in anticipo”. Si sa! I manager fanno i bilanci, i bilanci fanno i manager. Ritorna il taylorismo. Dove sono andati i buoni propositi delle “risorse umane”? Colpa della globalizzazione. Non posso più ragionare come una volta. Guardati attorno. “F.I.A.T. Voluntas Sua”. Le vendite calano. Io sono disoccupato. Non ho più niente da mangiare. Questo mese sono aumentato due chili. Devo fare una dieta. Non posso, devo tirarmi su. Almeno lasciatemi questo. È la mia unica soddisfazione. Volete togliermi anche il mangiare! Extracomunitari che arrivano. Rubano posti a me. Quel lavoro lì non mi piace. C’è puzza, è sporco, non fa per me, io sono italiano. Ho studiato un sacco. Sacrifici dei genitori, si sono tolti il pane dalla bocca per me. “F.I.A.T. Voluntas Loro”. Io, però, da giovane non volevo studiare, volevo andare a lavorare. Guadagnare subito! Avere tempo libero per divertirmi. Se non mi diverto da giovane dopo non lo farò più. Da pensionato si muore di noia. Devo aiutare mio figlio. Ha studiato ed è senza lavoro. Con la mia pensione di seicento euro al mese devo mantenerlo. Non va più fuori di casa. Non vedo l’ora che si faccia una famiglia. Colpa della globalizzazione. “F.I.A.T. Voluntas Tua”.
Oh my God!
Non capisco più nulla. Sono confuso. Chiedo aiuto. Aiutatemi!
Personali
2024 marzo /aprile Viaggio tra forme e colori Artemente Gallery, Jesolo
2022 Intimità divisa Galleriailmelone Rovigo
2020 ArtMix Gallery Brooklyn N.Y, N.Y.
2019 “Vie di fuga” Galleriailmelone Rovigo
2018 Fiera del libro Porto Viro
2016 Blu note, Galleria d’arte contemporanea Il Melone, Rovigo,
2015 Visioni Altre, Campo del Ghetto Novo, 2918, Venezia
2013 Rifiuti, Spazio espositivo presso Liceo classico e scientifico di Adria,
2011 “Vivere sopra e SOPRAVVIVERE”, Teatro Congressi, Abano Terme (Padova)
2010 Spina festa, Casa Museo Remo Brindisi Lido di Spina (Ferrara)*
2010 “Linguaggi contemporanei” Centro culturale Casa Tani, Rovereto
2010 La bellezza dei rifiuti, Grand Hotel Santa Lucia, Napoli
2010 “City life” Spazio d’Arte L’altrove, Ferrara
2009 “Trash” Teatro dei Congressi Pietro d’Abano, Abano Terme (PD),
2009 “Rifiuti” Sala Mondrian Istituto Galilei, Adria (Rovigo)
2009 “Abbandoni”, Palazzo Bellini, Comacchio (Ferrara)
2009 “Soli” Sala Cordella, Adria (Rovigo)
2008 “N.Y.C. Details”, Complesso monumentale San Paolo, Monselice (Padova)
2008 Dettagli, Spazio espositivo Tempi Moderni, Rovigo,
2008 “Confini”, Accademia dei Concordi, Rovigo
2008 “Piccoli dettagli” Hotel Plaza, Padova
2007 “Isole” Hotel Plaza, Padova
2007 “Mutazioni” Chiostro del Bramante, Roma
2007 Sopra la nuda terra – Hotel Plaza. Padova,
2007 Non è quello che cercavo- Spazio espositivo Hotel Le Magnolie, Badia Polesine,
2007 Io sono fatto così, Hotel Duchessa Isabella, Ferrara,
Mostre Collettive
2017 “Sotto il segno dell’arte” Centro d’arte San Vidal, Scoletta San Zaccaria, Venezia
2015 “Collettiva” Pescheria Nuova Rovigo
2010 Collettiva, Spina Festa
2009 “Arte e ambiente” Mostra del riciclo, PALASHARP” Milano
2008 N. Y.C. Dettagli Spazio espositivo Tempimoderni Rovigo
2008 “Collettiva Galleria il Melone”, Fiera ad ArteForte, Forte dei Marmi (Lucca)
2008 Kunstart 08, V° Fiera Internazionale dell’Arte, Bolzano
2008 Fiera Arte Contemporanea Moderna Roma, Palazzo dei Congressi, EUR, Roma
2008 Le Leslie Loman Gallery, Manhattan, New York City, N. Y. U.S.A.
2007 Collettiva Il Melone, Solgar Padova
2007 “BWAC” Brooklyn, N.Y. U.S.A.
2007 “Collettiva Il Melone”, Solgar, Padova
2007 “Collettiva Il Melone”, Motor Time, Maserà (Padova)
2007 “Collettiva Il Melone”, Americar, Due Carrare, (Padova)
2006 Ward Nasse Gallery Manhattan New York N.Y. U.S.A. *
2006 “Collettiva” Art Studio F. Calcagno” Venezia.
2006 “16° Fiera del quadro”, Galleria Tiepolo, Udine
2006 “Experimentation, Fall Art Show”, BWAC” Brooklyn , New York City U.S.A.
2006 “Ward – Nasse Gallery”, Manhattan, New York City, U.S.A.
2006 “55° fiera del quadro”, Centro d’arte San Vidal, Venezia
2006 “Collettiva Il Melone”, Erre Effe Group, Ferrara
2006 “Estate artistica veneziana”, Centro d’arte San Vidal, Scoletta San Zaccaria, Venezia
Installazioni
2007 Liber…arsi
2008 Invasi
2008 Nessuna risposta, avanti il prossimo, Rovigo
2009 Nessuna risposta, avanti il prossimo, Monselice,
2007 Passaggio -Prendi un’opera e lascia un pensiero, Rovigo
2009 Siamo tutti tanto fuori moda, Rovigo
2009 Humana, Rovigo
2009 Weeping wall (muro del pianto), Galleriailmelone, Rovigo
2009 Ai controllori di volo: chi ha il diritto di pilotare il nostro volo, Rovigo
2009 Profumi e balocchi, Perché non regalare un abbraccio, Rovigo
2010 F.I.A.T. Voluntas Sua, Rovigo
2010 I miei amori, Roma,
2010 Black+White = Colors, Rovigo
2013 Pedala !!!!, Rovigo
2017 Puliti fuori–Sporchi dentro (L’oceano borderline), Rovigo
Performance
2013 La stanza della verità, Liceo classico e scientifico di Adria,
2008 “Artisti per un giorno” con Mostra e visione filmato performance, Tempi Moderni, Rovigo
2007 Passaggio
2007 “Sopra la nuda terra” Il Gruppo Margini realizza tre grandi dipinti sul muro Autosalone Chrysler, Due Carrare (Padova).
2007 “Murales” Il Gruppo Margini realizza estemporaneamente tre grandi affreschi presso lo spazio Nissan, Maserà (Padova)
2006 “Vetrales” le vetrine diventano vive via Oberdan, 29 Rovigo
2006 “Incredibile Mini. The new Mini” Spazio Erreeffe Group, Ferrara
Conferenze
2007 Quando l’arte sa far discutere, Rotary Club Badia-Lendinara-Altopolesane
2007 Il sistema arte contemporanea: riflessioni critiche, Rotary Club di Ferrara
2008 Le nuove tendenze dell’arte contemporanea, Associazione Amici dell’arte di Rovigo
2009 Sistema arte: l’arte contemporanea in Italia, Lions Club Santa Maria Maddalena-Alto Polesine
2013 L’arte contemporanea e il sistema museale italiano, Aula magna del Liceo classico e scientifico di Adria
2017 L’arte che aiuta a migliorare la nostra mente. Gianni Cagnoni spiega le tecniche per conoscersi e stare meglio con sé stessi
2018 “Storie di rivoluzioni e rivoluzionari” Artisti che hanno cambiato il linguaggio dell’arte Duchamp, Pollock, Warhol.
Cataloghi e libri
2021 Creatività e follia Edizioni Ilmeloneditore
2020 Arte terapia in carcere Edizioni Ilmeloneditore
2017 Analisi della relazione tra psicopatologia e creatività
2015 Il contributo delle aree visive nell’esperienze estetica”
2011 “Vivere sopra e sopravvivere”
2009 ”Gianni Cagnoni, ABBANDONI (Africa, Soli, Confini, Rifiuti, Mutazioni, Oltre il muro)
2009 “Gianni Cagnoni TRASH”
2007 “Gianni Cagnoni”, vol. II (Isole, Mutazioni/Africa, Sopra la nuda terra)
2006 “Gianni Cagnoni” vol. I (I primi lavori)
Hanno detto di lui
Il linguaggio eclettico di Mario Lazzarini
Dal primo quadro che ricordo di aver visto, un acerbo trombettista viola, all’ultimo, uno stupendo elefante morto, di strada l’artista Gianni Cagnoni ne ha fatta. Incapace di fare progressi come un comune artista, prendendosi il tempo necessario a imparare, a progredire, decide anche nell’arte di saltare le tappe, di percorrere tutte le strade artistiche e di affrontarle una ad una in pochissimo tempo, come se dipingere fosse una cosa normale, fatta da sempre.
Questa frenesia, questo entusiasmo, lo portano a elaborare velocemente quello che uno studente dell’Accademia di Belle Arti ottiene in quattro anni di faticoso studio, ovvero: il linguaggio artistico, perché il linguaggio è il vero cruccio di ogni artista ed è la cosa che lo differenzia da un dilettante qualunque. Il linguaggio di Gianni Cagnoni si basa sulla comunicazione, spesso di messaggi in ambiti popolari, della quotidianità, talvolta con chiari riferimenti al sociale; ricordo tutta la serie dedicata al ritratto, in cui spesso comparivano personaggi di colore o disadattati di ogni genere. A volte il messaggio è meno chiaro, si nasconde dietro le pennellate o ancora più in là, nell’animo dell’artista, che dipinge come investito da un incredibile impulso sessuale: tutto ciò che elabora la mente creativa di Gianni Cagnoni viene trasferito sulla tela all’istante, quasi l’artista non avesse tempo di vita sufficiente a vedere l’opera ultimata.
È così che Gianni Cagnoni dipinge, di getto, con la frenesia e la passione che lo contraddistinguono da tutti gli altri: perché è questo il suo vero linguaggio, la sua pennellata veloce ed espressiva, la sua capacità di caratterizzare, rendere vivo, dinamico e drammatico qualunque soggetto. Un’altra caratteristica fondamentale per un’artista vero” è l’eclettismo; ovvero la capacità di cambiare, non solo la normale progressione dello stile, ma anche saper mutare, senza perdere riconoscibilità di linguaggio o di tecnica. Gianni Cagnoni possiede questo vero talento capace di mutare sé stesso più che la pittura fondendosi con ciò che dipinge, perché la pittura e l’artista sono un unico corpo fatto di materia e colore, passione e sensibilità, in un’empatia reciproca quasi come l’artista potesse entrare nell’opera e la pittura immedesimarsi in esso.
E l’astratto per Gianni Cagnoni è il raggiungimento del sublime del selvaggio e della libertà gestuale. Il raggiungimento della perfezione: cosciente del fatto che ciò verrà ignorato dall’artista per sperimentare nuove emozioni.
I confini dell’anima di Mario Lazzarini ed Elisa Legnaro
Nella vasta e variegata produzione artistica di Gianni Cagnoni, le serie “Sopra la nuda terra” e “Confini”, entrambe presenti in mostra, sono l’espressione di un travaglio interiore fatto di sofferenze e di sentimenti che l’artista vuole mostrare e quasi offrire perché l’osservatore possa scoprire emozioni, nuove a lui stesso e che preesistono silenti dentro i confini della sua intimità. Ed è proprio il tema del confine che ci viene sottoposto: confine geologico, fisico, ma soprattutto confine mentale. É il confine tra ciò che sappiamo e accettiamo di noi stessi e ciò che di noi ci fa paura, è il confine che fissiamo come limite insuperabile alle nostre più nascoste pulsioni, il confine entro il quale ci sentiamo protetti ma che pure ci imprigiona; è anche il confine frapposto tra noi e gli altri, tanto più alto e invalicabile quanto più gli altri ci sembrano o sono diversi. Confine mentale e anche confine territoriale: qui ci sono io, là c’è l’altro.
Nelle tele dell’artista si vedono barriere ovunque, in certi casi vere e proprie catene montuose, a volte semplici staccionate. In altre vi sono solo colori, pennellate materiche che si fondono tra di loro, in un vortice emotivo, pulsante di vita, che funge da barriera ideale per la nostra mente. Qua e là emergono cicatrici di troppe battaglie combattute contro l’incomunicabilità, contro l’ignoranza, contro il male di vivere, cicatrici che hanno generato nell’artista e in tutti noi i confini che ci impediscono di essere davvero noi stessi, di relazionarci apertamente con gli altri. Ci spaventa troppo sapere cosa si cela al di là del muro di confine che abbiamo eretto.
Ma il confine esiste anche per essere superato, valicato o abbattuto. Che voglia dirci anche questo l’artista? Un invito a se stesso e a noi a non lasciarci chiudere l’orizzonte, ad esplorare l’ignoto, a non avere paura? E in effetti in molte tele fioriscono magmatiche pennellate che lasciano intravedere, attraverso luminosi squarci, bagliori di libertà. Sì, dalla forza espressiva di queste opere scaturisce la sofferenza che tutti, almeno una volta, abbiamo provato, perché tutti lottiamo contro i nostri personali sbarramenti. Si tratta, però, di una sofferenza che sprigiona vitalità, energia come di chi non voglia sottomettersi e intenda invece combattere e vincere i propri fantasmi.
Questa spinta vitalistica manca nella serie “Sopra la nuda terra” che, non è un caso, precede quella dei “Confini”. In questa grandi tele domina la contemplazione assorta e partecipe di morti violente e desolate, ma anche qui la caratteristica dell’opera di Gianni Cagnoni è il sottile collegamento che l’autore riesce a stabilire tra le sue esperienze emotive e mentali e la sua pittura. Qui questo rapporto è reso attraverso figure umane appena abbozzate, quasi deformi, drammatiche e inquietanti, fissate con passionali pennellate e rese ancora più tragiche dalle mani dell’artista che diventano lo strumento diretto per trasferire emozioni sulla tela. I neri, i bruni, gli ocra e le tonalità dei rossi e la forma serrata delle tele rendono ancora più autentico il legame tra l’opera dell’artista e i messaggi che si vogliono comunicare. E se qui i “graffi”, una costante presente in tutta la produzione di Gianni Cagnoni, appaiono come sottili scalfitture come di chi non voglia indagare di cosa è fatta la materia di quei corpi o voglia solo rispettarli, nei “Confini” sono diventati veri e propri solchi, quasi unghiate ferine tese a scavare sempre più nel profondo.
BEYOND APPEARANCE di Elisa Legnaro
Gianni Cagnoni never stops amazing us. We have just finished meditating upon his heart-aching cycle of large paintings “Sopra la nuda terra” (On the Bare Earth), where he is not afraid to converse with death, as well as admiring his series “Isole” (Isles), “Mutazioni “(Mutations), “Africa”, “Rifiuti” (Trush) and his small and large sculptures. And yet he is already somewhere else, imagining or preparing some fascinating performances or embroidering on the canvas some enigmatic boundaries “Confini” (Edges is the title of his new works). Even during his usual holiday in New York, he keeps expressing his volcanic eclecticism or giving form to his visions. Not even in humble places, which are prosaic in themselves, does his inexhaustible research comes to an end.
With a small digital camera, strolling along the streets of New York City, his eye is able to capture unexpected images, almost invisible, where no one else might imagine: weather-scraped walls, dust-bins, dirty or rusty tables, torn posters. In an old kitchen, his eye is captured by the scraped surface of an old casserole; in his friend’s studio, his camera lingers upon the table, dirty with colorful encrustments of already limed temperas and acrylics. And so on, catching almost microscopic details which are invisible and insignificant to us, but not to him.
And then, the wonder: with patience and an infallible taste he examines hundreds of shots to choose only a few dozen; then, without any retouching, he enlarges them on the computer and creates unexpected images. Here are frayed asbestos fibers evoking silent winter landscapes; a small drop of grease becomes a nebula peeping in a sulphurous space. You see neither encrustments, nor details of patched cardboard boxes, nor rust strips, but weird flowers, bird-flights in hollow black skies, fantastic animals, eerie ghosts. Other photos are truly abstract compositions; you can give them the most varied unthinkable interpretations, as do the astonished at the exhibition of these singular photos.
There is something mysterious, almost metaphysical, in the fact that some insignificant details, above all rubbish and trash of daily life, apparently with no meaning, give life to amazing chromatic effects or to allusive images of the most unforeseeable reality.
Both in photos and in painting, the mark in Gianni Cagnoni’s works is the one of an inner untameable restlessness joined to a rooted stimulus to rationality which tries to bridle and discipline the chaotic reality, both physical and interior.
Even in his photos, Gianni Cagnoni seems to communicate that beauty lies already in things; we must only see it. Yet, seeing beauty is not everybody’s virtue but an artist’s main one. In such a case, the artist has gone beyond: not only in seeing beauty but in literally creating it with his eye. Then thank you, Gianni, because you have given us the privilege to see through your eyes, to see beauty where nobody had even tried to look for it or to create it.
La bellezza del nulla di Francesca Mariotti
“Di tutto conosciamo il prezzo, di niente il valore” (F. Nietzsche).
Gianni Cagnoni, un professionista, un insegnante, ma soprattutto un artista che fin da piccolo ha sentito la forte esigenza di restare in armonia con se stesso e con il mondo che lo circonda. Le sue opere ne sono la storia e l’espressione più sincera e, se “il Futuro appartiene a coloro che credono nella Bellezza dei loro sogni”, come disse Eleonor Roosevelt, Gianni ne tiene saldamente le redini in mano. L’arte lo ha accompagnato nelle sue passioni e nei suoi viaggi, vivendo tra Italia e gli Stati Uniti, dandogli modo di scoprire bellezze e nefandezze di questa epoca piena di contrasti. La sua capacità di cogliere l’espressione più intima e vera di luoghi e volti ha dato modo alla sua vena creatrice di espressioni poetiche e crude, di dolcissimi paesaggi africani e di forti volti sofferenti, fino a giungere alle serie “Confini”, “Trash” e, non ultima, “City Life”, in cui non è la tecnica usata o il soggetto rappresentato a colpire lo spettatore, ma la BELLEZZA, l’incanto, lo stupore che ne esce e che affascina. Non importa poi tanto se queste emozioni giungono attraverso una tela dipinta o una immagine fotografica, se il supporto è usuale o sperimentale, ciò che rimane nei nostri occhi e nel nostro cuore è l’impressione decisa e stupenda di essere davanti a qualcosa di speciale, che ci cattura e ci avvolge nella sua calda EMOZIONE. Questo è l’impatto che scaturisce entrando nella casa/studio di Gianni Cagnoni: un meraviglioso mondo pieno di “finestre aperte alla vitalità dei suoi sogni”. Visioni incantate e disincantate si susseguono e, incalzanti, ci prendono per mano e trasportano insieme all’artista oltre CONFINI e dentro mille vite-LIFE, fatte di NULLA, cioè di piccole cose, senza valore e insignificanti, ma che in realtà contengono il Macrocosmo in un Microcosmo. Particolari di luoghi dimenticati e rovinati dal tempo e dall’uso, Supermarket, immondizie e rifiuti, diventano teatro della vita moderna e contemporanea, piccoli spunti colorati e incredibili. L’averli colti e resi protagonisti di una rappresentazione unica e importante, è il grande merito di un’artista come Cagnoni, per il quale l’attenzione maggiore è quella di esprimere la vita nella sua essenzialità più profonda e semplice insieme. Piccole cose che diventano simbolo e icona di un mondo intero. La ricerca espressiva, poi, fa diventare importante anche il modo in cui rendere “evidenti” tali soggetti ed ecco i mezzi tecnici ed i supporti trovati appositamente in sintonia con il messaggio contenuto in essi. Pellicole Domopak, sacchi, cartoni e poster pubblicitari, diventano un tutt’uno con ciò che vi viene sopra stampato per una armonia e una simbiosi continua con il messaggio sicuro e deciso dell’autore. RICERCA e MESSAGGIO si fanno perfetti, poiché “Tutto è perfetto nell’universo, anche il tuo desiderio di migliorarlo” (Wayne Dyer). La ricerca dei materiali passa alla ricerca sul colore e a quel cromatismo dell’artista, tanto evidente nelle tele dipinte in acrilico e olio, che anche nella fotografia cerca soggetti in cui contrasti e armonie vengono fissati nel e con il colore. Rossi, arancio, turchesi, verdi, neri e gialli si rincorrono e si fondono, brillano e si spengono, in spettacolari “gigantografie” di un mondo in sgretolamento. E la Bellezza cattura il nostro occhio curioso e il cuore che “come la terra, metà illuminata dal sole e l’altra metà nell’ombra” (Susanna Tamaro) fa parte di noi e ci rispecchia. Il nostro Yin e Yang si alternano e si compensano rappresentando un dosaggio fluido e misterioso di due componenti complementari e essenziali come luci e ombre in ogni dove. L’equilibrio e l’essenzialità di ogni opera ne è testimone assoluto. In ogni scatto vi è degrado e abbandono, ma nello stesso tempo incanto e armonia. Si entra e si esce da una dimensione onirica, quasi come sul ciglio di uno stargate immaginario. E Gianni Cagnoni, da artista-condottiero, dona a noi spettatori uno show unico e imponente sulla quotidianità nella sua essenza. Una quotidianità che vive di false divinità e usanze, come denuncia la sua ultima installazione “Profumi & Balocchi”: cassonetti – regalo che mostrano provocatoriamente una società dove “regna l’interesse al consumo” e l’azione del dare “è inevitabilmente sotto questo dominio”. La generosità si tramuta “in azione subdola e priva di semplicità”. “Perché non regalare un abbraccio?” ci chiede Cagnoni. Forse la risposta sta in questo breve aforisma di Mark Twain: “L’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma anche l’unico che ne ha bisogno”. Impariamo a indignarci e a vergognarci di alcuni cliché privi di contenuto e di importanza vera! L’Arte deve fare questo: offrire motivo di riflessione e di scoperta del VERO.
Ai controllori di volo. Chi ha il diritto di pilotare il nostro volo? di Achille Ferrari
Cosa si desidera più di ogni altra cosa per i propri figli?
Per loro ci si augura la libertà, la felicità, che sappiano affrontare con coraggio i problemi che la vita presenta, si desidera che abbiano soprattutto atteggiamenti positivi verso se stessi e gli altri.
Questo e molto di più è quello che sogna il genitore fin da subito, fin dal momento in cui riconosce quella creatura come propria.
Se da sempre il genitore ha desiderato la felicità per i propri figli, perché allora tanto dolore, tanta infelicità e soprattutto tanta rabbia?
Perché tante persone vivono nella paura e si sentono al riparo solo fra le mura domestiche?
Perché questi figli così amati, pensati, così giovani, così rigogliosamente vivi si danno alla droga, alla delinquenza, diventano seguaci di gruppi minoritari che usano affermare il loro esistere negando la vita al diverso, al debole?
Perché il genitore immagina la propria creatura in volo nel futuro ed essa cade spietatamente nella terra desolata del pregiudizio e dello stereotipo negandosi così la conoscenza?
Perché?
Il fatto è che la maggior parte dei genitori non è in grado di trasmettere ai figli la gioia di vivere perché essi stessi non hanno imparato questo semplice segreto.
Non possono insegnare ciò che non conoscono: si perpetua lo stesso circolo vizioso in cui essi stessi si sono trovati e i figli diventano le vittime della ignoranza di genitori; essi credono di sapere che cosa determina il successo e tiranneggiano i figli perché diventino, quello che pensano debbano diventare.
Spesso gli adulti sono convinti che le loro idee sul mondo siano le uniche possibili e accettabili, le uniche degne di essere condivise, le uniche che meritano di essere fondamenta educative per i figli, ancor peggio sono spesso convinti che al di fuori di esse vi sia la perdizione.
Se lo scopo è quello di permettere a una giovane vita di raggiungere, per quanto le è possibile, la propria realizzazione, è evidente che questa idea, a prima vista, così banale, si contrappone inesorabilmente all’idea del genitore che vuole e pensa che educare significhi fare del figlio l’erede delle proprie convinzioni su sé e sul mondo. Allora se il figlio dovrà essere quello che il genitore si è prefisso debba “assolutamente” diventare, userà per sempre e in maniera perentoria, inesorabile il verbo dovere! Il figlio deve essere l’ambasciatore della sua famiglia, il figlio deve rappresentare l’educazione del padre e della madre! Tutto il linguaggio, le emozioni e quindi i comportamenti gireranno sempre più vorticosamente attorno al verbo “dovere” e se malauguratamente ci si discosta, colpa e paura saranno il prezzo da pagare!
La parola–pallottola “devo” e le conseguenze concettuali come “è intollerabile”, e ancora” è ingiusto” vanno a conficcarsi nella autostima del figlio, impedendogli così di aprire in tutto il loro splendore quelle ali grandi e potenti che lo farebbero volare per i sentieri della scoperta, della conoscenza, della fantasia!
Al genitore è stata data la gioia di amare e di educare: educare alla curiosità delle conoscenze, alla sapienza del confronto, alla consapevolezza che la libertà si conquista giorno per giorno partendo dalla convinzione che nessun uomo ha il dono della verità, ma tutti ne sono alla ricerca!
La paura e l’insicurezza del genitore a volte si contrappongono dolorosamente al desiderio dello stesso genitore di donare liberta, curiosità e sicurezza e la paura uccide la libertà e la curiosità. Ciò si traduce in controllo continuo asfissiante nei confronti del figlio, il quale, a sua volta, struttura un’idea di un mondo pericoloso, insicuro, spaventoso dal quale difendersi attaccandolo, proteggendosi o assecondandolo in vari modi, e tutto questo a scapito di quel desiderio di libertà e di leggerezza che pure è presente in lui.
Senza il peso del pregiudizio, e quindi senza paura, con la fiducia in sé e conseguentemente negli altri, il figlio, potrà conquistare quella gioia di vivere, carburante che lo farà volare per sempre nel futuro; il futuro, che la mente libera si sa costruire, è la condizione indispensabile dell’uomo perché possa sentirsi in armonia con sé e con il mondo indipendentemente dall’età o la condizione fisica
È bello pensare che ognuno di noi è figlio e genitore, è bello pensare che oltre a essere genitore di mio figlio sono genitore di me stesso, e quindi con la possibilità di auto educarmi, di cambiare e conseguentemente di proporre a mio figlio, in qualsiasi momento, un genitore diverso che cresce che si modifica, che non dipende, per sempre da idee o schemi che a volte limitano e impediscono di vedere il futuro consapevolmente, gioiosamente.
E ciò non vuol dire che nella vita del figlio non vi sia la sofferenza, la paura, l’ansia, la tristezza, la delusione, l’angoscia, ma significa che quella persona, padre, madre, figlio che sia, saprà piangere e soffrire senza perdersi d’animo, affrontando la realtà con la sicurezza del proprio valore senza pretendere di modificare o di cambiare il mondo per assecondare i propri bisogni a volte profondamente e dolorosamente fuori dalla realtà.
Sarebbe bello educare alla tolleranza cercando di dare il meglio di sé sempre in ogni momento, e scoprendo sempre il meglio e la meravigliosa diversità negli altri, in tutti gli altri, senza discriminare tra religioni, razze e censo, ma sapendo che ogni mente produce idee ed emozioni, interpretate e vissute in maniera diversa e quindi ricche di novità e conseguentemente fonte di interesse e non di paura.
Sarebbe bello riconoscerci unici e particolari in mezzo a infinite unicità con lo stesso diritto all’esistenza, sapendo che il reciproco riconoscersi porta al sogno, alla speranza, alla conoscenza e allora voleremo…. e sì voleremo.
I soli sono volti con grandi occhi lucidi che guardano un altrove eterno, a volte, ciechi, guardano dentro sé stessi l’essenza dell’essere, come una pianta, immobili, come rocce. Sono uomini disseccati, smagriti dal dolore antico del cuore del mondo.
I loro visi sono incrostati dalla polvere africana, dalle terre colorate e dai rivoli disseccati delle lacrime. Sono antichi, sono terreni e sono persi nel mondo urbano, nella modernità che allontana dalle radici e trasforma in esuli.
Vengono dal ventre della terra, ma ci appaiono alieni: stanno di fronte a noi come estranei, ma sentiamo che li abbiamo già incontrati in tutti i luoghi del mondo, il mondo povero, quello fuori tempo.
Non esisterebbero senza l’Africa che Gianni Cagnoni ha visitato giovanissimo e che da allora gli è rimasta dentro come un magma di ricordi. È una memoria depositata nel profondo, rifusa, metamorfica. A tratti nella sua vita riaffiora alla superficie cosciente attraverso la pittura ed esplode in dipinti affocati. Risale a qualche anno fa il ciclo di tele dipinte a olio e tecnica mista che ha intitolato “Africa”, nel quale l’artista ha incentrato la ricerca sulle suggestioni dell’ambiente, il calore del sole, la polvere, la terra, i miraggi. Oggi la sua Africa scende sul campo dell’esistenza umana e del rapporto con l’altro uomo, quello legato alla terra, con il fuoriuscito. E poi con l’universale, irresistibile necessità dell’esistenza.
Confini e sopra la nuda terra di Mario Lazzarini
La pittura di Gianni Cagnoni è fisica e viscerale, violentemente espressiva e legata all’inconscio. Si inserisce nel solco dell’arte programmaticamente tesa alla spontaneità e al gusto della materia. Dall’automatismo surrealista, a Dubuffet, all’espressionismo astratto americano e a quello europeo del gruppo CoBrA, alla Transavanguardia italiana. Come non ricordare i volti di Jorn, di Karel Appel e di Francesco Clemente. È un’arte della manualità, non concettuale, di sangue e carne.
Indubbio è il grande, sofferto piacere della materia. Il rapporto del pittore con la materia è maturo e ha imparato ad essere paritario. Il colore, la pennellata, o altri mezzi, come la carta usata, si sovrappongono in strati come le esperienze della vita, i rapporti, le amicizie. A volte l’artista ascolta intento la materia che suggerisce e traccia il prosieguo del cammino, a volte la maltratta, la forza, a volte la porta con sé a condividere le proprie azioni.
Confini e Sopra la nuda terra di Mario Lazzarini
Chi è un artista? La maggior parte della gente pensa all’artista come ad un extra terrestre. C’è chi lo crede un pazzo, chi un fannullone, chi un drogato, chi vede nella figura dell’artista un artigiano molto dotato. In pochi, soprattutto gli addetti ai lavori e appassionati d’arte, capiscono l’importanza di questa figura professionale che sta ai margini della nostra società.
L’artista in realtà non è un artigiano o un pazzo, è soprattutto un professionista, che ha, come principale obiettivo quello di comunicare con il pubblico di far riflettere, di emozionare. Ecco perché, molto spesso, le opere d’arte sono i più incomprensibili rebus da decifrare o appaiono come eccessive provocazioni che creano più orrore che riflessioni intelligenti.
Ho sempre pensato che l’artista è colui che vede ciò che gli altri non vedono, ovvero una persona che più di chiunque altro porta dentro di se, la sofferenza, le difficoltà e i contrasti della nostra società. È la sua sensibilità che lo spinge a creare, a voler condividere con gli altri le proprie sofferenze e riflessioni. È grazie agli artisti che possiamo capire e vedere certe problematiche, è grazie a loro se possiamo provare certe emozioni e talvolta vedere il mondo da un punto di vista alternativo, come mai lo avremmo potuto immaginare.
Nell’opera di Gianni Cagnoni le serie “Sopra la nuda terra” e “Confini”, entrambe presenti in mostra, rappresentano proprio quanto detto finora, ovvero un travaglio interiore fatto di sofferenze e di emozioni che l’artista ci vuole mostrare, come opera d’arte, nella speranza che l’osservatore possa scoprire emozioni che prima erano confinate da qualche parte nella sua mente. Perché è proprio il tema del confine che ci viene sottoposto: come confine geologico, fisico e come confine mentale, come ciò che non siamo disposti a capire, ad accettare. Se pensiamo ai confini come a un qualcosa di invalicabile, come succede a chi non accetta le persone che stanno al di là del nostro territorio, così diverse da noi, con abitudini troppo incomprensibili per essere accettate, capiamo quanto i nostri confini mentali siano difficili da superare.
Dall’opera dell’artista si vedono barriere ovunque, in certi casi vere e proprie catene montuose o semplici staccionate che rappresentano confini troppo lontani da noi per essere superati. In altre vi sono solo colori, pennellate materiche che si fondono tra di loro, in un vortice emotivo, pulsante di vita, che funge da barriera ideale per la nostra mente lasciando riemergere, qua e là, cicatrici di troppe battaglie combattute contro le violenze, contro l’incomunicabilità, contro l’ignoranza, che hanno generato nell’artista e in tutti noi i confini, che ci impediscono di essere noi stessi, di relazionarci con gli altri, perché ci spaventa troppo sapere cosa si cela al di là del muro di confine che abbiamo eretto.
Nelle opere di Gianni Cagnoni il confine è rappresentato dunque in senso fisico con barriere che ci impediscono di vedere oltre o con magmatiche pennellate che lasciano intravedere attraverso luminosi squarci, un bagliore di speranza. Ma è dalla forza espressiva delle sue opere che fuoriesce la sofferenza che tutti, almeno una volta, abbiamo provato, perché tutti noi mettiamo degli sbarramenti ai confini della nostra mente senza sapere l’importanza di ciò che lasciamo al di fuori, come avviene nella serie “Sopra la nuda terra”.
Anche in queste opere l’artista crea un sottile collegamento fra le proprie esperienze e la sua pittura, attraverso delle figure imprecise, deformi, inquietanti, drammatiche e a volte commoventi, dipinte con passionali pennellate e rese ancor più tragiche dalle mani dell’artista che diventano lo strumento diretto per trasferire emozioni sulla tela. I neri, i bruni, gli ocra e le tonalità dei rossi e la forma serrata delle tele, rendono ancora più autentico il legame tra l’opera dell’artista e i messaggi di sofferenza e di una libertà confinate dentro di noi ma, purtroppo, il più delle volte dimenticata.
CONFINI di Guido Cagnoni
Ha un sapore paradossale, al limite del bizzarro, parlare al giorno d’oggi di “confini”: come nell’antichità le civiltà più evolute avevano tutte un carattere stanziale e perciò si sviluppavano in una data area geografica e da lì non uscivano mai per…timore di quello che avrebbero trovato al di fuori, al giorno d’oggi non esiste luogo che non sia, con un mezzo o un altro, raggiungibile da un essere umano.
Parlando poi di limiti geografici, per secoli le frontiere fisiche che dividevano un paese da un altro sono state considerate da tutti come un punto fermo, mentre oggi il libero transito delle persone senza quasi nessun controllo è già realtà, perlomeno nella nostra area d’Europa.
Confine come limite di ciò che era conosciuto, ma anche come limite stesso alla conoscenza: non per nulla i grandi cambiamenti epocali hanno avuto sempre come corollario l’abbattere e l’oltrepassare un confine.
Ad esempio valga ricordare il passaggio da epoca medievale a moderna, avvenuto grazie alla scoperta dell’America, un gesto di autentica pazzia di un navigatore genovese dalla grande forza visionaria, animato da una profonda fiducia nei propri mezzi, che dimostrò di non avere paura dei confini fino ad allora conosciuti, per superarli, prima di tutto mentalmente, e poi fisicamente, con i risultati che ben conosciamo.
Il fascino di questa operazione, interpretata con forza e vigore, la ritroviamo nella serie su tela di Gianni Cagnoni intitolata “Confini”.
Scenari di ispirazione paesaggistico-panoramico si accompagnano a soggetti informali e astratti, e tutti concorrono alla creazione di un’impressione e di un’intuizione: se davvero ciò che vediamo, mutuato dalla nostra esperienza, ci può far riandare con la mente a luoghi che abbiamo osservato, o che ricostruiamo idealmente, ciò che ci spinge a dare un senso alle forme e ai colori sulle tele è il nostro inconscio di persone che vivono nel mondo e come tali siamo sottoposti a svariate influenze.
La realtà, o quantomeno ciò che nella nostra testa viene percepita come tale, si fonda così con le ricostruzioni della nostra fantasia, in una ebbrezza continua fatta di scoperta e riscoperta di scenari e di altri dettagli colti qui e là al volo.
Ma non di semplici paesaggi tratta questa serie, poiché quasi tutti presentano un altro fattore portante: quella struttura geometrica fatta di tanti piccoli segni paralleli che si intrecciano in perpendicolare con altri segni analoghi per dimensioni e fattura; ciò che può ricollegarsi a elementi della natura come segni di ghiacciai su montagne di fantasia, in altre scene assumono sembianze più artificiali, di cose costruite dall’uomo: la metaforica staccionata che chiude alcuni ambienti e alcune zone di tela e le divide da altre ci riporta alla dimensione tutta umana della creazione del confine, come decisione di dividere un territorio tra ciò che appartiene a noi e ciò che è di altri, ma anche di stabilire un limite di senso e di comprensibilità tra ciò che consideriamo alla nostra portata e tutto ciò che non lo è.
Se un insegnamento si può trarre dall’osservazione di questa serie di opere pittoriche, che nello stile e nella maniera compositiva riprendono gli stilemi tipici dell’artista rodigino, fatti di pennellate ampie e vigorose, contrasti cromatici anche accesi, sfondi indefiniti e aggiunte di carta per dare un ultimo tocco di spessore, è la possibilità di attraversamento del confine: se è vero che sono perlopiù creazioni della nostra mente, la presenza di squarci e bagliori che vediamo qui e là, e la serie di suggestioni di libertà da un’oppressione che ci induce l’osservazione attenta e concentrata delle tele, non può lasciarci indifferenti, dandoci così il “la” definitivo per superare il nostro confine tutto personale.
Racconti di paesaggi di Anna Livia Friel
Le opere di Gianni Cagnoni si comportano come frammenti di vita catturati in un istante, in qualche modo, e che restituiscono allo sguardo uno spazio temporale talmente breve e allo stesso tempo così preciso che non riusciamo a ricordarci, pur consapevoli della sua esistenza, quando esso sia stato impresso.
È in questo modo che le sue pitture attraversano in un baleno i più stratificati livelli della percezione e, se di primo acchito agli occhi sembreranno dei gradevoli accostamenti cromatici, ci accorgeremo, invece, come siano in grado di rubarci l’attenzione e si trasformino piuttosto in silenziose “grafie di emozioni” perfettamente in grado di innescare quel trasporto dell’anima normalmente causato dalle “cose belle”. Capitoli di un racconto, ciascuna di esse descrive un nuovo avvenimento, un episodio dirompente di colore e materia, un colpo di scena sprizzante di linee (seppur sempre istintive, una recitazione improvvisata e attenta) piuttosto che una riflessione soffusa di sfumature impercettibili, un monologo discreto, un episodio antico, il ricordo di qualcosa che si presenta come una luce leggera, un cambio timido di tinta, un sussurro, ecco. Ma fanno pur sempre parte dello stesso lungo racconto e non danno occasione di dimenticarlo, potremmo immaginarle pure messe in fila una dietro l’altra, piccola carovana di racconti che mettono in scena la vita. Ecco che allora nella serie Africa, suggestione intima più che geografica, l’Africa della nostra mente, delle nostre origini, si svolgono una serie di orizzonti, non necessariamente segnati da terra e cielo, ma semplicemente la linea che il nostro sguardo incontra quando osserva intensamente qualcosa, il limite che separa un sentimento dall’altro, la soluzione di continuità tra un giorno e quello seguente (anche se sono proprio i giorni in opere come Sunset che non si sanno più distinguere, inondati dalla stessa sabbia rossa). Ebbene, sanno prendersi per mano questi “orizzonti” come se il punto di vista non cambiasse davvero ma girasse intorno a se stesso e mettesse in un’immagine l’ultimo guizzo di quella precedente e il primo della successiva, creando un movimento vorticoso di suggestioni. Ed osservando la movimentata continuità di questa danza circolare ci accorgiamo che pure i Confini sono riusciti ad entrare a farne parte: allacciandosi a chissà quale piccolo frammento di colore o coda di linea anch’essi raccontano il loro variopinto episodio, sinuosi e morbidi fin tanto che non decidono di trasformarsi in ripidi profili rocciosi, increspati dalla luce, e poi ritornare dolcemente ad una polverosa distesa. I punti che delineano queste tracce, apparentemente casuali, dettate dalla gestualità, si scoprono a questo punto ordinati da una visione incredibilmente globale. Nel capitolo Sopra la nuda terra i personaggi, figure indistinte mosse da gesti primordiali sono distesi sulle stesse curve di colore che appartenevano ai paesaggi precedenti e sono consapevoli di abitare qualcosa di noto, di sicuro e familiare: non è della terra il disagio della nudità, vestita delle sembianze più vere e originarie ma di chi sopra di essa si distende, vuoto, impaurito, disegnato da incerti contorni bianchi, illuminato di tanto in tanto da una luce interiore. Isole, progetto sviluppato tra 2005 e 2006 fa pure parte della stessa saga, ma raccontata con linguaggi più vividi ed irruenti dove le forme rivendicano un’indipendenza anche cromatica, talvolta conquistata da un salto di bianco, a volte emergendo da uno scuro fondale, portano alla luce il loro frammento poetico, talvolta si distribuiscono, piccoli abachi di forme. E si ha l’impressione che scendendo di scala, avvicinandosi di qualche kilometro a queste terre riaffiorate dall’anima si potrebbe fare una scoperta: sedendosi sulla piccola macchia di colore pastoso – quella che poco prima credevamo di poter toccare con un solo dito – fissando intensamente l’infinito davanti a noi, troveremo forse gli stessi orizzonti d’Africa o i Confini aspri, le dune pastose e se siamo fortunati anche il tramonto più bello.
Cagnoni – Il colore onirico della realtà quotidiana di Elena Stoppa
Grande interesse ha riscosso la sua più recente produzione che è stata raccolta in un catalogo intitolato “TRASH”. Partendo da foto di dettagli di bidoni di immondizie, di porte, di sacchi di rifiuti, portoni e muri scrostati tutti scovati a New York dal 2006 al 2008 realizza stampe su pellicola Domopak, su sacchi di patate, su vecchi cartoni, sul retro di manifesti pubblicitari. Queste opere mostrano quanto possa essere bello il mondo nascosto e ignorato delle nostre città. I colori e le forme oniriche di un mondo concreto assumono la bellezza della realtà astratta che ci circonda.
Nell’uomo Gianni Cagnoni la pittura è solo uno dei tanti linguaggi che lo attraversa. Ma aldilà di tutto ciò che ci attraversa c’è un’arte sola di cui l’uomo può essere artefice: la ricerca dell’integrità umana. E questa arte è la pulizia di tutti gli altri linguaggi espressivi. Ed è a quest’arte che Gianni Cagnoni ha dedicato e dedica la sua vita. È inutile elencare tutto ciò che ha fatto o quello che farà, dove ha studiato o chi ha conosciuto; lasciamo che sia la sua pittura a guidarci. I suoi quadri sono e nell’essere vibrano e questo vibrare non ha un nome, ma una forma multiforme che non vuol raccontare nulla ma lascia che sia l’osservatore a porsi le domande e darsi le risposte, o, nel migliore dei casi, nessuna delle due ma soltanto entrare in contatto con l’opera e vibrare insieme a essa.
Le tele di Gianni Cagnoni versano lacrime solitarie, combattono con irti confini interni ed esterni, con isolamenti concreti e astratti, con mutamenti fluidi e graffianti, e spesso ci si trova a camminare a piedi nudi sulla nuda terra per poi perdersi in paesaggi di memorie arcaiche che hanno il colore dei sogni. Per Gianni Cagnoni dello stesso colore onirico è tinta anche la realtà quotidiana. La vita per quest’uomo è una tela gigante dove l’individuo è il pittore che con il suo pennello traccia il proprio cammino ed è per questo che la sua opera di uomo è totale poiché non ha mai visto dicotomia tra il dottor Cagnoni, il professor Cagnoni e l’artista Gianni Cagnoni ma soltanto un uomo che ha amato e ama la comunicazione ed i rapporti umani. Ed è in questa comunicazione che si basa tutta la sua ricerca. Non vuol educare, non vuol criticare, non vuol giudicare ma vuole soltanto dare.
Siamo tutti tanto fuori moda di Elisabetta Zanchetta
Il termine “installazione” è stato coniato negli anni Sessanta per descrivere opere create appositamente per uno specifico spazio espositivo (site-specific installation) all’aperto.
I primi esemplari erano spesso temporanei e non destinati a scopi commerciali, ma, anzi, concepiti come ostacoli al consumo. Oggi molte installazioni vengono acquistate da mercanti e galleristi che le vendono ai collezionisti. Le installazioni invendibili vengono commercializzate mediante documentazione fotografica o video dell’attività esecutiva dell’artista.
Gianni Cagnoni sta dimostrando ormai da tempo di voler utilizzare lo spazio antistante il suo studio di via Celio, 37, come spazio espositivo permanente delle sue installazioni. Si ricorderà, infatti, la prima installazione che risale a quasi tre anni fa, intitolata “Liber…arsi” (2006), un grande parallelepipedo di libri; poi “Passaggio” (2007), uno scambio di quadri in cambio di pensieri scritti depositati nella teca dai visitatori; la recente “Nessuna risposta. Avanti il prossimo” (2008), che affronta il tema delle stragi automobilistiche del sabato notte, con la lista angosciante dei giovani che perdono la vita dopo l’uscita dalle discoteche.
Quest’ultima installazione “Siamo tutti tanto fuori moda”, presentata martedì 16 dicembre 2008, di impronta più sociale, ci interroga sulla situazione attuale del nostro Paese.
Il punto di domanda rivolto al visitatore dall’opera riguarda un po’ tutti i settori della vita sociale. La risposta dell’artista, che è al tempo stesso una critica al vanto italiano di essere primi nel settore della moda, è il titolo dell’opera: “Siamo tutti tanto fuori moda”. È un richiamo anche al vecchio detto che l’abito non fa il monaco. Occorre intervenire sul profondo delle varie istituzioni e avere il coraggio di innovare realmente. Ovviamente non spetta all’artista proporre soluzioni, ma il suo ruolo è quello di denunciare una situazione di disagio che si prova quando ci si confronta con altre realtà sociali che hanno avuto la forza di mutare.
L’opera sembra porre la seguente domanda: Che ne pensi
• del funzionamento della giustizia,
• del sistema scolastico ed universitario,
• della rete stradale e ferroviaria,
• dell’uso del denaro pubblico,
• dei servizi sanitari,
• del sistema bancario,
• dei consulenti finanziari,
• della burocrazia,
• delle libere professioni,
• dell’integrazione degli immigrati,
• della normativa sul lavoro
La risposta dell’autore è chiara:
SIAMO
TUTTI
TANTO
FUORI
MODA
LA VIOLENZA DEL REGALO di Marcel Lesko
Da tempi remoti, dalla bocca di San Paolo echeggia un motto misterioso: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Ma la sacralità di questa azione non ha più nulla di sacro, e nemmeno la semplicità del dono ha più nulla di semplice, poiché l’interesse lo ha usato, disusato e complicato fino a farlo diventare una violenza infiocchettata. Come ogni altra cosa in questa svilita civiltà, anche il donare ha subito uno svuotamento vertiginoso: regalo per Natale, regalo per la Befana, regalo per Pasqua, regalo per fine anno, regalo per Capodanno, regalo per compleanno, mazzo di fiori prima del rapporto, gioiello per il giorno dopo, per il centenario onorario, per il primo bacio, e per l’anniversario, per San Valentino, Santo Stefano, e Sant’Agostino, prima e dopo cena, per il matrimonio, il divorzio e il ricongiungimento in catena, e altri ancora. In una società dove regna l’interesse, l’azione del dare è inevitabilmente sotto questo dominio e da un atto generoso muta in una azione subdola e priva di semplicità. Tutti comprano le stesse cose, quelle che il mercato ha per loro ben confezionato o il regalo che in quel momento va di moda, un cinghiale appeso per la coda, senza curarsi di che cosa tocchi il profondo del destinatario fremebondo. Siamo vittime della mancanza di ascolto, non ascoltiamo noi e non ascoltiamo l’altro. L’ascolto porta a sentire la persona che abbiamo accanto e trovare l’oggetto straordinario che apre una porta oltre il necessario, da dove per un attimo usciamo da noi per andare verso l’altro e con gli occhi dell’altro spesso osserviamo meglio anche noi stessi. Il dono-regalo non è un piacere, soltanto, ma è uno scambio vitale, un gesto puro, cristallino che comunica all’altro ciò che non si può comunicare con le parole: un’attenzione, un affetto, un ringraziamento, un’emozione e l’indicibile diventa un’azione o un oggetto simbolo che porta con sé il sentire inesplicabile. Ma se facciamo un regalo senza onestà, amorale, allora diventa schiavo dell’interesse cavia-le, per poi mutare in offesa, obbligo, peso, debito, costrizione, imbarazzo, e il ricevente sfiancato si sente come una grassa esca che serve per pigliare il pesce più grande. Il regalo è un atto creativo, non un barratolo di pesche sciroppate o un gioiello su ali spezzate, è la spinta che mette in moto la nostra creatività per trovare una forma adatta al nostro donare. Il dono ci abita, come nei bambini che non sanno fare regali ma creano una cosa apposita per una persona specifica: una foglia, una filastrocca, l’abbandonarsi tra le braccia, un disegno che quasi sempre porta il nome di quella persona. Poi questo aspetto viene deturpato dal momento che insegniamo ai bambini il modo “astuto” di ottenere la caramella, cosi il bisogno innato del dare-avere diventa uno scaltro interesse costituito. Il regalo è un “modo” ormai e in questa modalità non c’è più vita, e se c’è, è ben segregata. Una regalia chiusa, nascosta, una confezione vuota e truccata che noi chiamiamo sorpresa. Solo l’inganno si serve subdolamente, al buio, mentre il dono è chiaro ed evidente. E la cosa grave è che tutti ormai tradizionalmente facciamo regali senza porci veramente la domanda: cosa abbiamo messo dentro a questa scatola chiusa? Perché nascondiamo il nostro dono? Perché misuriamo il dono con il denaro? Perché in giorni stabiliti e non sentiti? E cosi ci troviamo a fare il regalo come se fosse una cosa obbligatoria e quest’obbligo diventa insidia e l’insidia vendetta e cosi la nostra sana spinta del dare diventa una bestia ingabbiata pronta a sbranare; allora agghindiamo i nostri inganni con fiocchi luccicanti, con dentro gioielli abbaglianti dove tutti si trovano a ripetere perpetuamente questo derelitto rito svilito. Solo quando scalpelleremo tutti gli strati regalistici del dare PER avere, allora apparirà il dono.
BLACK + WHITE = COLOURS di Leopoldo Caudullo
Ho visto l’ultima installazione di Gianni Cagnoni: Black + White = Colors, una mucca bianco candido che si nutre di fieno nero e sei bottiglie di latte colorato.
La mucca bianca non esiste in natura, come non esiste l’essere umano perfetto. Nonostante ciò molti uomini continuano a sentirsi tali. Da sempre l’essere umano è avverso a tutto ciò che è autocritica e analisi di sé stesso, mentre è molto più interessato a giudicare il suo prossimo. Egli si sente spesso un modello privo di difetti e per questo non soggetto al giudizio di alcuno.
Qualsiasi scopo l’essere umano voglia raggiungere, non può non circondarsi di opere o servizi frutto del lavoro dei suoi simili.
E il punto è proprio questo: molto spesso nel corso della nostra vita veniamo favoriti dall’opera di persone che non avremmo mai considerato né valutato, e che invece si rivelano e rivelano il proprio lavoro migliore di qualsiasi nostra aspettativa.
Impariamo così a vedere e a cogliere in tutto ciò che ci circonda (uomini inclusi) i lati positivi. Infatti, anche in ciò che a primo impatto può sembrarci negativo si nasconde sempre qualcosa di positivo.
Per questo motivo è assolutamente possibile che una mucca che si nutre di fieno nero possa dar vita a un latte pieno di colori e positività. Ciò che ai nostri occhi si veste di nero può non essere negativo. Queste ragioni mi inducono a pensare che nella storia dell’umanità l’uomo bianco si è avvalso delle braccia e delle menti di uomini dalla pelle nera, eppure, quanti risultati colorati e positivi ne sono nati?
Non dobbiamo dimenticare che da soli siamo nulla. I migliori risultati, in tutte le epoche, sono stati frutto della collettività, mai del singolo.
Concludendo mi sento di chiedere ai Potenti e a tutte le Mucche che si sentono bianche di smetterla di pensare che il petrolio possa essere trasformato solo in benzina o che i rifiuti debbano per forza servire a formare discariche sempre più grandi e alte.
Entrambe le cose da “nere” possono essere trasformate in qualcosa di finalmente colorato e utile al bene della nostra terra e della nostra specie.
A GIANNI di Marcel Lesko
Non è l’uomo che fa l’arte ma è l’arte che attraversa l’uomo!
Nell’uomo Gianni Cagnoni la pittura è solo uno dei tanti linguaggi che lo attraversa. Ma aldilà di tutto ciò che c’attraversa c’è un’arte sola di cui l’uomo può essere artefice, la ricerca dell’integrità umana. E questa arte è la pulizia di tutti gli altri linguaggi espressivi. Ed è a quest’arte che Gianni Cagnoni ha dedicato e dedica la sua vita. È inutile elencare tutto ciò che ha fatto o quello che farà, dove ha studiato o chi ha conosciuto; lasciamo che sia la sua pittura a guidarci. I suoi quadri sono, e nell’essere vibrano e questo vibrare non ha un nome, ma una forma multiforme che non vuol raccontar nulla ma lascia che sia l’osservatore a porsi le domande e darsi le risposte, o nel migliore dei casi nessuna delle due ma soltanto entrare in contato con l’opera e vibrare insieme ad essa. Le tele di Gianni Cagnoni versano lacrime solitarie, combattono con irti confini interni ed esterni, con isolamenti concreti ed astratti, con mutamenti fluidi e graffianti, e spesso ci si trova a camminare a piedi nudi sulla nuda terra per poi perdersi in paesaggi di memorie arcaiche che hanno il colore dei sogni. Per Gianni Cagnoni dello stesso colore onirico è tinta anche la realtà quotidiana. La vita per quest’uomo è una tela gigante dove l’individuo è il pittore che con il suo pennello traccia il proprio cammino ed è per questo che la sua opera di uomo è totale poiché non ha mai visto dicotomia tra il Dr. Cagnoni, il Prof. Cagnoni o l’artista Gianni Cagnoni ma soltanto un uomo che ha amato ed ama la comunicazione e i rapporti umani. Ed è in questa comunicazione che si basa tutta la sua ricerca umana. Non vuol educare, non vuol criticare, non vuol giudicare ma vuole soltanto dare, UN ABBRACCIO.
Nessuna risposta. Avanti il prossimo di Elena Stoppa
Una strada qualsiasi.
Di ritorno da una discoteca o da un pub.
Una coda di auto con le frecce lampeggianti.
Forze dell’Ordine che intimano di rallentare e fermarsi.
Luci blu e arancione che illuminano la scena.
Lenzuola bianche che lasciano intravedere forme umane.
E il giorno dopo, sul bordo della strada, mazzi di fiori.
Fatti di cronaca cui, purtroppo, si è abituati. Sono gli incidenti del sabato sera: ogni domenica mattina ci si alza consapevoli che qualche giovane non ancora trentenne ha perso la vita sulla strada.
Per colpa di chi? Le statistiche parlano di abuso di alcool, droghe e alta velocità. Perché, nonostante i sondaggi dicano che il popolo della notte sia pienamente cosciente di quale rischio lo attenda all’uscita dai templi del divertimento, questo continua ad essere decimato? Chi può fare qualcosa per fermare queste morti così assurde?
Gianni Cagnoni vuole farci riflettere su questo dramma e lo fa realizzando una installazione nel piccolo giardino di via Celio, 37. Non lo fa usando il linguaggio della bellezza, come ognuno si aspetterebbe da un’opera d’arte. “Non mi interessa che la mia arte sia bella o brutta. Deve essere vera”, affermava Piero Manzoni.
L’installazione, infatti, non è bella, non è brutta: è vera. Il suo fine è quello di farci svoltare l’angolo della via con un formicolio nella pancia o nel cuore, o una lacrima, nel ricordo di qualche amico, parente, figlio perso stupidamente, un sabato sera qualsiasi, di ritorno da una serata allegra.
E il cellulare chiama a vuoto. Sul display compare
NESSUNA RISPOSTA.
La verità che Cagnoni vuole presentarci è che multe più salate, velox minacciosi, pattuglie più presenti, braccialetti blu, orari di chiusura anticipati e messa in sicurezza delle strade non sono servite a cambiare l’attuale situazione che rimane drammatica.
Fanno parte dell’installazione tre tele che, richiamandosi alla strada, riportano una black list immaginaria di giovani ed altre tre tele, che l’artista non vorrebbe mai dipingere, ma che purtroppo sono destinate a riempirsi velocemente dei nomi di altre vittime.
I^ semestre 2003: 321 giovani morti.
I^ semestre 2004: 389 giovani morti.
I^ semestre 2005: 377 giovani morti.
I^ semestre 2006: 342 giovani morti.
I^ semestre 2007: 373 giovani morti.
I^ semestre 2008: 353 giovani morti.
L’amara conclusione è: AVANTI IL PROSSIMO.
Details di Ellie Winberg
Details are an escape; an opportunity to be still able to feel emotions in a society which tends to stereotype and standardize things and people.
One person’s trash is another person’s treasure.
“I dettagli sono una via di fuga; un’opportunità per poter ancora provare emozioni in una società che tende a stereotipare e uniformare cose e persone.
La spazzatura di una persona è il tesoro di un’altra persona.”
New York city: small details di Rossella Ciani
When I first saw the photos, I was blown away. Thinking about the details one might see in New York, a hyper-photographed city, I imagined seeing details of the city itself, rather than images that would be meaningless to most of us.
Gianni Cagnoni, on the contrary, has been able to release the energy imprisoned in those trivial details of walls, bins, doors and windows and in his works these small details explode in full colour.
From simple signs and shapes he has been able to capture the energy that releases daily life in such a frenetic city. These are the details of New York: the life, breath and smell of millions of people running back and forth. As details, they are there, still observed by those who are able to see them, releasing the energy that emanates from them.
Gianni Cagnoni has been able to see them and give them a soul, enhancing their colors and apparent lack of shape. They are just details but they are the first actors in a life that hardly appears but is there.